Ordet, 'la parola', 'il verbo' (con ordet si apre il Vangelo secondo Giovanni in danese), è uno dei massimi film sulla fede, meglio, sulle fedi e sull'unica fede in cui i personaggi si trovano uniti alla fine, la fede nel "vecchio Dio… il Dio di Elia, eterno e uguale". Per ciascuno dei principali personaggi maschili, il punto di partenza è una fede contrabbandata ed esclusiva, o l'assenza di fede. Il vecchio Borgen, nonostante l'orgogliosa coscienza del proprio ruolo di evangelizzatore, non crede più nei miracoli ora che al termine dell'esistenza si sente abbandonato e tradito dai figli e dalla nuora, falliti ormai i suoi tentativi di addomesticare la vita. Il calzolaio Peter si crede eletto ma è incapace di perdonare. Mikkel protesta la propria fedeltà alla terra e alla corporeità di fronte al silenzio di un Dio assente. Ma un percorso di fede è quello dello stesso Johannes: finché si crede Cristo egli è incapace di richiamare Inger alla vita, tenta inutilmente e sviene sul letto di morte di lei. Solo al rientro dal suo viaggio solitario, quando ritorna ad essere Johannes e a chiamare padre il proprio padre carnale, solo allora può chiedere a Cristo 'la parola' che possa ridare la vita ai morti. Estranei a questo percorso sono coloro che sembrano del tutto refrattari alla fede o coloro che l'hanno sempre avuta. Da un lato, Inger e la piccola Maren, la madre e la bambina, che sempre hanno creduto in un Dio capace di intervenire qui e ora e che in tal modo sono il perno carnale (e femminile) del percorso altrui. Dall'altro il pastore e, in parte, il medico, funzionari di una religione e di una scienza che vorrebbero spartirsi la cura del corpo e dell'anima, ma che nulla sanno di quella 'vita' che Inger invoca in chiusura di film.
Ordet è il film di Carl Theodor Dreyer più fedele al suo soggetto originale, tanto che in apertura del film leggiamo solo un sorprendente ‒ e umile ‒ "Kaj Munk/ Ordet". Tuttavia il regista scarnifica e radicalizza il testo teatrale; per esempio Munk lascia ambiguamente indeciso se la morte di Inger sia vera o apparente, Dreyer fa invece una scelta inequivoca per il miracolo. Il ritmo del racconto è lento e maestoso. Lunghe e lente panoramiche e piani-sequenza orizzontali sia negli interni che negli esterni seguono i movimenti e i dialoghi tra i personaggi, che in tal modo disegnano lo spazio in cui si muovono. Il montaggio senza taglio è portato all'estremo; spesso a una scena corrisponde una sola inquadratura. La lunghezza media delle inquadrature è di circa 65 secondi, e nelle sezioni centrali giunge fino a sette minuti. La distanza narrativa dalla Passion de Jeanne d'Arc, con il suo dialogo serrato di campi e controcampi in primo e primissimo piano, non potrebbe essere maggiore. Nelle inquadrature degli interni, spesso in campo totale e a figura intera, le figure umane si compongono con raro equilibrio pittorico e si disgiungono a lento passo di danza. L'unico primissimo piano è dedicato al volto di morte di Inger. I riferimenti pittorici sono in primo luogo alla pittura danese di fine Ottocento e inizi del Novecento: il gruppo di pittori e pittrici di Skagen ‒ su tutti Anna Ancher ‒ e Vilhelm Hammershøj. Gli esterni, in campo lungo o totale, che spesso cuciono il racconto, presentano una semplice e rigorosa divisione orizzontale tra cielo e terra, che contrasta con i bassi soffitti degli interni. Il realismo di Dreyer si esprime nei paesaggi spazzati dal vento della costa occidentale dello Jutland, nella cura dei costumi e nella recitazione dialettale degli attori, nei versi degli animali della fattoria, nella nuda scenografia degli interni. Ordet è il proprio film che Dreyer giudicava più vicino alla perfezione. Conquistò il Leone d'oro alla Mostra del Cinema di Venezia del 1955.